MILANO (MF-DJ)--È ancora una volta piena estate, e ci si attende il peggio. Nel 1992 fummo trattati come una qualsiasi Ddr, se non peggio: ed è ancora indelebile, a trent'anni di distanza da quando la lira boccheggiava sui mercati, il ricordo di quella folle corsa all'oro, con la conversione in marchi dei titoli di Stato italiani che impazzava nelle agenzie di banca.

I risparmi degli italiani se ne andarono via a fiumi, come è successo in questi ultimi dieci anni, a partire dal 2012, con il saldo di Banca d'Italia che continua a battere di mese in mese ogni record negativo nel sistema Target 2. L'abbandono delle monete nazionali a favore dell'euro ha solo spostato l'oggetto della speculazione, che invece della lira, della dracma o della peseta ha preso di mira i rispettivi debiti pubblici. Gli investitori d'altra parte fiutano il pericolo lontano un miglio e ritirano gli impieghi alla ricerca di porti sicuri: da un anno a questa parte il corso dell'euro ha perso un 20% avvicinandosi alla parità col dollaro: avessimo avuto ancora la lira, in tanti si sarebbero stracciati le vesti. E invece no, stavolta hanno bonariamente atteso che la Bce cambiasse intonazione sui tassi. Le misure volte a evitare il riaprirsi degli spread annunciano una consapevolezza nuova: anche stavolta la crisi arriverà in autunno abbattendosi sui costi dell'energia e sulla produzione, mentre la guerra in Ucraina prosegue senza sosta. In tanti sono interessati a dissanguare l'Europa. Non ci si può più illudere, come si fece allora: che le privatizzazioni avrebbero fatto crescere l'Italia più di quanto non fosse accaduto durante la Prima Repubblica, con un Paese che era arrivato a essere la quinta potenza industriale al mondo; che la riduzione del debito potesse passare da una riduzione continua della spesa pubblica degli investimenti infrastrutturali penalizzando la produttività e immiserendoci; che la crescita economica durevole potesse basarsi sulla competitività commerciale attraverso la flessibilità del mercato del lavoro e l'abbattimento dei salari.

Siamo a una nuova svolta geopolitica: come la caduta del Muro di Berlino servì ad abbattere la Prima Repubblica, così la crisi americana del 2008 e poi quella europea innescata dalla Grecia nel 2010 hanno dimostrato l'insostenibilità della globalizzazione finanziaria che aveva nascosto gli squilibri strutturali sotto spesse coltri di debito privato e pubblico e di un mercantilismo che destinava il reimpiego degli attivi alla loro stessa crescita. In Italia si polverizzarono in pochi mesi i risultati di vent'anni di politica di risanamento finanziario adottata attraverso l'accumulazione del saldo primario di bilancio, che aveva fatto lentamente scendere di una ventina di punti il rapporto tra debito pubblico e pil fino ad arrivare al 100%. Da allora il rapporto è peggiorato, in crescendo, prima per la crisi economica e sociale innescata dall'emergenza epidemica e ora dalla congiuntura internazionale. Mentre il debito è aumentato della metà, nel 2022 non abbiamo ancora recuperato il livello di reddito reale del 2012, più basso rispetto a quello del 2008.

Un solo anno di aumento dei prezzi all'import, a partire dal maggio dell'anno scorso, ha già rottamato gli attivi commerciali strutturali di Germania e Italia: per noi vanno in fumo i sacrifici fatti a partire dal governo Monti, che distrusse la domanda interna aumentando la tassazione. I redditi da lavoro sono già stati ridotti al minimo e ora vengono erosi dall'inflazione: volendo ovviamente evitare le tensioni sociali, aumentano di continuo i sussidi pubblici di ogni sorta, senza alcuna strategia.

In Germania è saltata l'intera strategia di politica economica adottata a partire dall'inizio del secolo: le riforme Hartz volte a segmentare il mercato del lavoro e a rendere socialmente coercitivo quello meno produttivo; l'abbandono del nucleare e del carbone a favore del gas russo; la monocultura automobilistica. Ci ha pensato la furia americana, insolentita dalla pervicace arroganza tedesca, ad azzerarne le velleità geopolitiche.

Ma è negli Usa che cova più che altrove il conflitto politico: il suo modello di deindustrializzazione può sopravvivere solo se riesce a imporre ad alleati e competitor i servizi dei suoi player, un'opzione che comporta l'azzeramento dei servizi pubblici universali e dei sistemi di sicurezza sociale dalla scuola alla sanità, fino alle pensioni basate sui sistemi a ripartizione e al mutuo riconoscimento dei servizi bancari, finanziari e assicurativi in ogni settore. L'Unione Europea espresse a suo tempo un veto invalicabile al Ttip e la Cina ha fatto lo stesso fino a decidere di recente il delisting da Wall Street di una serie di grandi imprese.

La Cina è diventata intanto il perno del commercio internazionale: ha un assetto economico molto più equilibrato, non accetta le crisi finanziarie ricorrenti dell'Occidente come metodo per ricondurre a equilibrio gli eccessi sistemici e soprattutto non stravolge le relazioni internazionali con la prepotenza valutaria. Gli Usa non possono più essere il compratore a debito di ultima istanza: hanno uno squilibrio commerciale e finanziario astronomico, ulteriormente enfatizzato dal rafforzamento del dollaro. La Germania a sua voltanon può più approfittare del mercantilismo per arricchirsi commercialmente soprattutto a danno degli Usa, visto che si fa pure pagare da Washington le spese militari a garanzia della sua sicurezza.

Le famiglie americane stanno maluccio e le banche tedesche assai peggio. Agitare lo spauracchio del debito pubblico italiano non serve più a nascondere i ben più pesanti squilibri e i ben più gravi rischi che incombono sulla tenuta di Usa e Germania: sono in crisi i loro modelli di crescita economica e finanziaria, simmetricamente squilibrata sull'estero.

Dobbiamo prepararci al dopo, al rientro precipitoso dei capitali italiani dall'estero, a un nuovo modello di crescita basato sugli investimenti produttivi, a un assetto non mercantilista delle relazioni commerciali internazionali, alla fine del mercatismo.

red

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1710:00 ago 2022


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August 17, 2022 04:01 ET (08:01 GMT)