Per cominciare, un occhio esperto guarderà il conto economico dall'alto verso il basso e lo separerà in genere in tre segmenti distinti: profitto lordo, profitto operativo e profitto netto; a ciascuno di questi saranno associati i tre concetti di margine lordo, margine operativo e margine netto.
L'utile lordo si ottiene sottraendo i costi di produzione dai ricavi. In pratica, è il margine lordo ad essere più utile quando si confrontano diverse aziende dello stesso settore, per identificare quelle con i costi di produzione più competitivi e/o i prezzi di vendita più alti.
In maniera isola, si tratta di un indicatore dal valore limitato e può addirittura essere fuorviante, poiché un alto margine lordo non significa necessariamente che l'azienda abbia una buona performance economica. Si veda, ad esempio, Dolby Laboratories, Inc: la prudenza è d’obbligo. Al contrario, un margine lordo basso in termini assoluti non preclude una creazione di valore eccezionale nel lungo periodo, come dimostra il caso di Lockheed Martin.
Lo stesso vale per l'utile operativo, che si ottiene sottraendo all'utile lordo tutti i costi amministrativi e le spese discrezionali — quelle a geometria variabile, come i budget per il marketing o la ricerca e sviluppo. Anche in questo caso, un errore comune è quello di equiparare un margine operativo elevato a una performance economica soddisfacente.
Ne sono un esempio Soitec e Stellantis, per le quali gli effetti ciclici favorevoli fanno lievitare i margini di tanto in tanto, nascondendo il fatto che la loro redditività — cioè l'efficienza del capitale investito nelle loro attività — rimane mediocre, se non anemica. Al contrario, un gruppo come Walmart ha un margine operativo molto basso in termini assoluti, ma la sua redditività nel ciclo è straordinaria.
In fondo al conto economico troviamo il risultato netto — noto come "bottom line" nel gergo degli analisti — che si ottiene sottraendo i costi di finanziamento, i cosiddetti oneri eccezionali e le imposte dall'utile operativo, serve in teoria a giudicare la performance di un'azienda. Solo in teoria, perché l'utile netto non è sempre identico all'utile reale — quello misurato in contanti, noto come “free cash-flow”.
Una discrepanza tra i due indicatori, l'utile netto e il free cash-flow, si verifica in genere quando gli investimenti dell'azienda — un flusso di cassa tangibile in uscita — sono superiori agli ammortamenti, che sono semplicemente voci contabili destinate a smussare l'importo di questi investimenti in diversi anni.
In questo senso, in aziende ad alta intensità di capitale come l'industria automobilistica o siderurgica, il conto economico sembra talvolta un'opera di fantasia, poiché spesso ha poco a che fare con la reale capacità delle aziende di generare profitti in contanti da distribuire agli azionisti.
Un esempio significativo è ArcelorMittal, che lo scorso anno ha sostenuto oneri di ammortamento e svalutazione per 2,7 miliardi di dollari, mentre gli investimenti reali — capital expenditures — hanno raggiunto i 3,9 miliardi di dollari. Questa differenza di 1,2 miliardi di dollari, sebbene sfugga al filtro del conto economico, rappresenta comunque un costo reale che deve essere sostenuto...
Al contrario, in attività a bassa intensità di — definite "capital-light" nel gergo degli analisti — l'utile netto e il cash-flow libero sono spesso facilmente conciliabili. È il caso, ad esempio, di un'attività di consulenza come quella della società francese Alten.
Infine, è fondamentale misurare l'evoluzione del profitto — utili netti, free cash-flow o entrambi — per azione. Una società che, in un determinato periodo, raddoppia gli utili ma quadruplica il numero di azioni in circolazione avrà distrutto il valore per gli azionisti.
D'altro canto, un’azienda che, in un determinato periodo, vede dimezzarsi gli utili ma contemporaneamente divide per quattro il numero di azioni in circolazione, sarà riuscita a creare valore per i suoi azionisti nonostante i venti contrari.