MILANO - Le aziende italiane si sono scontrate con i limiti del "piccolo è bello" quando la concorrenza è diventata globale. Spinte dai fondi di private equity, i fornitori dei grandi gruppi del lusso stanno ora imparando che l'unione fa la forza.    Con la sua sofisticata tradizione artigianale, l'Italia copre il 50-55% della produzione globale di abbigliamento e pelletteria di lusso attraverso migliaia di piccoli produttori, secondo i calcoli della società di consulenza Bain, contro il 20-25% del resto d'Europa.    Queste aziende, per lo più a conduzione familiare e di piccole dimensioni, spesso hanno difficoltà a soddisfare le nuove esigenze dei marchi con cui collaborano.

Per rispondere alle crescenti richieste in materia di sostenibilità e garantire al contempo la puntualità delle consegne, i brand cercano di stabilire legami sempre più stretti con i fornitori, che a loro volta hanno bisogno di forti investimenti per tracciare la provenienza dei materiali e costruire un'adeguata infrastruttura digitale.    I fondi di private equity, dopo aver esaurito i grandi marchi da acquistare, si sono ora rivolti alla catena di approvvigionamento del settore del lusso, optando per una strategia di "buy and build".    "I brand del lusso hanno avuto una crescita esponenziale: i nostri clienti avevano bisogno che anche noi crescessimo con loro", spiega Nicola Giuntini, la cui azienda, con sede in Toscana, produce capi spalla per marchi come Celine, Burberry e Stella McCartney.    Nel 2020, i Giuntini hanno venduto la loro azienda a Vam Investments, controllata dall'ex AD di Bulgari Francesco Trapani, Fondo Italiano d'Investimento e Italmobiliare, entrando a far parte di un polo di produttori di abbigliamento di lusso.    "In Italia si fa fatica a fare squadra ma io ho tratto ispirazione dai francesi: unendo le forze possiamo garantire livelli di produzione stabili e intraprendere progetti che sarebbero troppo costosi per il singolo. Al momento stiamo lavorando su un progetto di tracciabilità della lana fino all'allevamento ovino", ha dichiarato Giuntini.

   Il VANTAGGIO DELL'ITALIA   I fondi di private equity hanno avuto un ruolo importante nell'industria della moda italiana. Secondo una ricerca di Kpmg, hanno realizzato il 40% delle operazioni degli ultimi dieci anni, tra cui i buyout di Moncler, Versace, Roberto Cavalli ed Ermenegildo Zegna.    La pandemia di Covid-19, con i conseguenti problemi nella supply chain, ha avuto un ruolo centrale nel convincere gli imprenditori italiani che era il momento giusto per aprire il capitale a nuovi soci.    L'azienda Giuntini fa ora parte del Gruppo Florence, controllato dai fondi e partecipato dalle famiglie venditrici, che hanno reinvestito parte del ricavato.    Il gruppo comprende attualmente 22 aziende, per un fatturato complessivo di oltre 500 milioni di euro, e punta ad arrivare a contarne 30, prima di valutare un'eventuale quotazione.    Nel frattempo il gruppo ha iniziato a collaborare con Bank of America e Citi per valutare le varie opzioni strategiche dopo aver attirato l'interesse di fondi come Carlyle e Permira, secondo due fonti.

Nessuna delle parti interessate ha rilasciato un commento.

  "Non ci sono asset quotati che offrano agli investitori un'esposizione alla filiera made-in-Italy del settore del lusso", ha detto a Reuters Marco Piana, amministratore delegato di Vam.    "Questo è uno dei pochi settori in cui essere italiani è un vantaggio competitivo: non esiste un'altra area geografica in cui si abbia lo stesso know-how nella realizzazione di prodotti di soft luxury", ha aggiunto.     Luciano Barbetta, entrato nel grupp Florence lo scorso anno con la sua azienda pugliese di abbigliamento, ritiene che gli hub possano aiutare i produttori a recuperare i ritardi nelle consegne delle materie prime.    "Possiamo dire che ci siamo specializzati nel fare le cose con estrema velocità. Con i ritardi che subiscono le forniture di tessuto, una volta che i materiali arrivano da noi diventa una corsa contro il tempo. Avere più aziende all'interno di un hub ci permette di aiutarci reciprocamente a rispettare i tempi degli ordini. È davvero un bella sensazione quella di non avere tutta la responsabilità sulle proprie spalle ma di poter condividere il peso con altri", ha detto Barbetta. 

PRODUZIONE DI NICCHIA    Il settore manifatturiero italiano è stato anche spesso oggetto di acquisizioni dirette da parte dei grandi marchi del lusso desiderosi di assicurarsi il controllo sulla propria catena di approvvigionamento.    I fondi di private equity e i grandi gruppi della moda potrebbero quindi potenzialmente farsi concorrenza, ma Stefano Cervo, partner di Kpmg, spiega come alcune nicchie di filiera siano più adatte ai fondi e meno attraenti per i conglomerati del lusso.    "Per un grande marchio ha senso acquistare, ad esempio, una conceria specializzata in pelli rare, ma faccio fatica a immaginare che possa essere interessato, ad esempio, a un'azienda che si occupa del processo di doratura di accessori metallici come la catenella di una borsa o i bottoni", ha affermato.    "Eppure si può creare del valore nell'aggregare le aziende specializzate nel 'golden coating'. Basti pensare, dal punto di vista della sostenibilità, che la scala rende più facile riciclare gli scarti di produzione o ridurre la carbon footprint", ha aggiunto.     La società italiana di private equity Xenon International, ad esempio, ha puntato sulle aziende specializzate nelle finiture e nella produzione di articoli per il settore alta moda, che ha raggruppato in MinervaHub.    Le sette aziende in portafoglio, che comprendono produttori di accessori metallici o specializzati in finiture superficiali, hanno un fatturato aggregato di 180 milioni di euro.

"Al momento stiamo facendo la due diligence su altre sei società", spiega il socio fondatore e amministratore delegato di Xenon, Franco Prestigiacomo, aggiungendo che con queste sei il gruppo punta ad arrivare a 300 milioni di fatturato. "Dopo di queste, faremo altre integrazioni".    MinervaHub fornisce supporto alle proprie aziende in merito a questioni legali e finanziarie, nonché a questioni ambientali, sociali e di governance (Esg), spiega ancora Prestigiacomo.    Questo è fondamentale in un settore che, secondo Cervo di Kpmg, è diventato "ossessionato" dall'Esg.    "I fornitori possono rappresentare un grande rischio reputazionale per i grandi brand", ha affermato Piana di Vam.    "Nel mondo dei social media è troppo pericoloso non avere piena visibilità sulla propria catena di fornitura", ha precisato.  

(Tradotto da Chiara Bontacchio, editing Claudia Cristoferi)