MILANO (MF-DJ)--Una storia lunga 124 anni, finita come forse nessuno si sarebbe aspettato. Il fallimento di Seci, la holding del gruppo Maccaferri, è stata una doccia fredda, non per assenza di avvisaglie (la crisi della galassia era iniziata nella primavera del 2019), quanto per i dubbi espressi da più fronti sulla possibilità che si potesse evitare un tale epilogo. La sentenza depositata il 5 luglio al Tribunale di Bologna ha fatto calare il sipario su un'avventura iniziata nel 1897 a Lavino, poco distante da Zola Pedrosa (Bologna), quando nel registro delle imprese debuttò la «Ditta Maccaferri Raffaele, Officina da Fabbro».

Da subito, scrive Milano Finanza, la strada tracciata dal destino sembrò indicare che la grandezza del gruppo sarebbe derivata dall'abilità di risolvere situazioni di difficoltà. Come accaduto per esempio a Calderino, quando Luigi, figlio di Raffaele, decise di scommettere una lira che sarebbe riuscito a bloccare gli smottamenti che da tempo interrompevano la viabilità del paese. Nacquero così i gabbioni, che resero leggendari i Maccaferri, utilizzati in seguito da un giovanissimo Gaetano per mettere in sicurezza la chiusa di Casalecchio. Imprese che valsero al gruppo l'appalto per la produzione di filo spinato e cavalli di frisia per la Grande Guerra. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nel 1949, nacque la Seci, Società esercizi commerciali industriali, che diede un nuovo assetto all'impresa, che contava ormai su un vastissimo campo d'azione, tra investimenti e diversificazioni di business.

Prima della crisi, la holding controllava oltre 100 società per più di un miliardo di fatturato aggregato e quasi 5mila dipendenti sparsi in giro per il mondo, diventando il fiore all'occhiello dell'imprenditoria bolognese. Un successo valso alla famiglia il soprannome di Agnelli di Bologna e una sezione ad hoc nel Museo della storia di Bologna. Certo, negli anni qualche gioiello è stato ceduto, come la marca di profilattici Hatù o i carrelli Cesab, passati prima agli svedesi di BtIndustries e poi a Toyota, o la partecipazione in Eridania Italia, ceduta alla francese Cristal Union. Tutto sembrava però essere sotto controllo, tanto che che quando il presidente del Bologna calcio, Joey Saputo, ebbe l'idea di rifare lo stadio Dall'Ara coinvolse subito la famiglia.

Da quel momento, però, gli astri sembrarono disallinearsi: il restyling dello stadio non decollò, gli investimenti nell'energia si rivelarono tutt'altro che redditizi e il comparto dello zucchero imboccò una profonda crisi. Nella primavera 2019 la società fu così costretta a chiedere il concordato in bianco, gravata da un debito di 600 milioni, ora salito a 750 milioni, di cui circa 500 di debiti finanziari. Nel febbraio 2020 la Procura aveva chiesto istanza di fallimento, perché dai conti e dalle indagini della Finanza risultava «un evidente e manifesto stato di insolvenza», salvo poi congelare la procedura per concedere a Seci il tempo necessario a definire un piano di concordato, presentato a marzo 2020 ma integrato e modificato più volte nei mesi a venire.

red/lab

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1908:29 lug 2021

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