MILANO (MF-DJ)--Malgrado l'accordo di libero scambio raggiunto tra Unione europea e Regno Unito, in poco più di un mese la Brexit sta mettendo a dura prova la moda britannica. Ad aggravare le difficoltà emerse per le aziende fashion del Paese, già peraltro provate dalle conseguenze della pandemia, si è aggiunta a inizio anno la tax free abolition, una misura che secondo gli esperti penalizzerà ulteriormente la città di Londra andando a rafforzare le altre capitali della moda, Parigi e Milano.

A inizio mese il primo ministro Boris Johnson è stato il destinatario di un appello al governo firmato da 450 operatori britannici della moda e del tessile, un'industria del peso di 35 miliardi di sterline (pari a oltre 40 miliardi di euro al cambio di ieri) con quasi un milione di addetti, per denunciare che il settore rischia di essere decimato dall'uscita dall'Ue. Gli stakeholder chiedono misure di sostegno adeguate, lamentando il fatto che le nuove regole hanno reso più difficili i rapporti in particolare con i fornitori italiani, che presentano termini di pagamento più onerosi di prima. «Lo stress sulla catena del valore dei nuovi dazi genera una vera e propria variante inglese anche nel mondo del lusso, già alle prese con sostenibilità e digital transformation come nuove direttrici della customer journey. Da qui la necessità di rivalutare criticamente alcune assunzioni di fondo, per esempio la tendenza a uniformare il sell-in e il sell-out in chiave transfer pricing», ha spiegato a MFF Davide Bergami, partner e Mediterranean business development leader di EY, specificando che questo tema attiene non solo i brand italiani o europei che vendono in Gran Bretagna, ma anche gli stessi marchi inglesi che necessitano di materie prime e semilavorati di provenienza straniera.

Concorda Mauro Premazzi, responsabile per Jefferies dell'investment banking in Italia e del settore luxury in Europa, secondo cui l'assenza di dazi sulle merci la cui origine preferenziale è Ue è una buona notizia, ma la maggiore complessità nello sdoganamento dei beni e nella documentazione commerciale genererà sicuramente ritardi, e quindi costi, per le aziende che devono spedire nel Regno Unito. «È quindi possibile che assisteremo a un processo di relocation di parte della logistica, magazzini e spedizioni da parte di alcune aziende britanniche», ha commentato l'esperto, citando la maison Burberry e alcuni player online quali Farfetch, Matchesfashion o Asos, che potrebbero pensare a rilocalizzare in Paesi Ue una parte dei propri processi logistici per evitare di incorrere in costi e ritardi, con una perdita per l'economia del Regno Unito. In controtendenza il parere di Luca Solca, senior research analyst global luxury goods di Bernstein, che sostiene che la minaccia di dazi sia stata disinnescata con il raggiungimento di un Brexit deal e che non ci saranno eventuali difficoltà a spostare lavoratori qualificati da un'area all'altra.

«I marchi del lusso basati nell'Unione europea o in Uk dovranno confrontarsi con nuove normative, che potrebbero rendere l'enforcement della proprietà intellettuale più gravoso», ha dichiarato Elena Varese, co-ed del sector consumer goods and retail di Dla Piper. In definitiva, secondo l'avvocato, potrebbero crearsi nuove opportunità per le griffe con sede in Ue e possibili aggravi per quelli basati nel Regno Unito. Gli analisti di Jefferies prevedono che, dopo una contrazione del 22% lo scorso anno, nel 2021 il mercato del lusso crescerà solo del 10% circa e per tornare ai 306 miliardi di euro del 2019 si dovrà aspettare fino al 2023. «È possibile che i grandi beneficiari di questa incertezza siano i leader nell'online luxury, segmento che nel 2020 è cresciuto, secondo le nostre stime, del 55-60% e che prevediamo aumenti di un altro 40% nel 2021», ha concluso Premazzi. «Gli e-tailer come Farfetch e Matchesfashion saranno sicuramente capaci di adattarsi velocemente alle nuove regole post Brexit, mentre i player extra-Uk come MyTheresa e LuisaViaRoma continueranno a guadagnare quote di mercato».

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1709:05 feb 2021

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