MILANO (MF-DJ)--John Elkann ha affidato a Diego Piacentini il compito di trovare le grandi aziende del XXI secolo. Dopo aver contribuito a rendere colossali Apple e Amazon, il manager milanese (ma residente a Seattle) aiuterà Exor nella ricerca della next big thing e nel diventare un punto di riferimento per le startup globali. Il neo-presidente e advisor di Exor Seeds - spiega Piacentini a Milano Finanza - si è dato la missione di trasformare il braccio di venture capital della holding da «boutique» a «fondo strutturato e riconosciuto a livello mondiale». Anche per Exor Seeds, insomma, è giunto il momento di crescere e superare la fase di startup.

Domanda. Qual è il suo piano per Exor Seeds?

Risposta. È un'iniziativa giovane, nata da circa quattro anni, ma cresce in fretta sospinta dall'entusiasmo di John Elkann. I manager sono bravissimi a cercare investimenti, il mio ruolo sarà creare metodi, processi, organizzazione e cultura del rischio che permettono di scalare: di passare da boutique del venture capital a fondo internazionalmente riconosciuto al pari di Sequoia o Greylock. L'investimento di Exor Seeds deve diventare un sigillo di qualità della startup prescelta.

D. La logica d'investimento sarà finanziaria o anche industriale?

R. Entrambe. La complementarietà con le imprese controllate da Exor è uno dei criteri ma non l'unico e non sarà sufficiente a creare un grande fondo di venture capital. D'altra parte, la creazione di sinergie non è automatica, passare dalle buone intenzioni alle concrete collaborazioni.

D. Exor Seeds avrà un'attenzione speciale all'Italia?

R. Assolutamente sì, ci sarà un focus d'investimento particolare perché qui Exor ha le radici, perché conosciamo meglio il mercato e vogliamo aiutarlo a crescere.

D. In che modo?

R. Nel mondo delle startup gli unicorni sono soltanto lo 0,07%. All'interno di questa schiera ci sono quattro-cinque società spagnole, svizzere e francesi, nessuna italiana. Il divario c'è, quindi, ma non è incolmabile e anzi potrebbe accorciarsi in fretta perché i capitali stanno arrivando. In Italia ci sono gemme, ma bisogna scavare per trovarle.

D. Come attrarre capitali internazionali?

R. Al contrario di altri Paesi come Spagna e Regno Unito dove le startup nascono per natura e lingua già con vocazione internazionale, in Italia il mercato di partenza è limitato e forse sufficiente soltanto per iniziative fintech e retail di successo. Le startup di ogni altro settore devono quindi sforzarsi di diventare velocemente internazionali se vogliono attrarre investimenti da venture capital globali. La misura del successo è quando il fatturato in Italia è meno del 5% del totale. Se sei oltre il 10% vuol dire che sei ancora troppo attaccato al mercato domestico.

D. Pur in presenza di questi requisiti, però, le startup italiane faticano a emergere. Come mai?

R. Non esiste una sola causa, ma una serie di fattori concomitanti e noti da tempo: burocrazia, mancanza di capitali, pregiudizi sull'ecosistema, incapacità di trattenere i talenti. Tutti questi difetti ci sono, ma bisogna evitare di esaltarli perché altrimenti diventa una profezia che si autoavvera.

D. Qual è allora l'ostacolo principale?

R. C'è un problema di cultura. In Italia per ottenere le risorse per crescere devi far vedere i risultati, ma una startup senza risorse non può ottenere risultati. Amazon non sarebbe diventata Amazon se gli investitori gli avessero chiesto di mostrare i profitti prima di avere le risorse finanziarie. È una mentalità sbagliata che sta cambiando.

D. Vede il rischio di una bolla sul mercato del venture capital?

R. In generale no, in qualche ambito è possibile. Anche per il venture capital vale il principio di Benjamin Graham: nel breve periodo il mercato è una macchina che vota, ma nel lungo è una macchina che pesa. Le scelte vengono spesso fatte per emulazione e non dopo attenta valutazione e quindi bisogna stare attenti a non sopravvalutare le startup di alcuni settori. Le bolle sono statisticamente inevitabili e difficilmente correggibili.

D. Come schivarle?

R. Nel boom del '99 e 2000 c'erano startup che aprivano filiali ovunque senza strategia e senza alcun prodotto distintivo. Sta a chi investe riuscire distinguere il grano dal loglio. Per fortuna, nella maggior parte dei casi non mancano strumenti e dati per riuscirci. In genere, però, il successo è più elevato nei settori più nuovi e dove quindi ci sono meno informazioni disponibili. Lì bisogna correre rischi, calcolati ma rischi. D'altra parte, spesso gli investimenti peggiori sono quelli che non fai.

D. Quindi?

R. Occorre studiare, lavorare sull'intuizione e guardare sempre con curiosità e attenzione alle nuove tendenze che stanno nascendo, anche se talvolta sono insondabili. Qualche anno fa un conoscente mi disse che stava lasciando Microsoft per entrare in una startup che permetteva di mandare messaggi al mondo per documentare quello che si stava mangiando. All'epoca mi parve una scelta assurda: quella startup era Twitter.

D. Quali tendenze vede oggi?

R. Qualsiasi attività utile a misurare l'impronta di carbonio di un'azienda, a catturare la Co2 e a ridurre le emissioni di gas serra. Ho investito in una startup attiva nella cattura di carbonio e ne conosco le difficoltà di sviluppo. Ci vorrà tempo per industrializzare queste tecnologie, ma cambieranno tutto.

D. Presidente di Exor Seeds, advisor di Kkr e membro di diversi board di imprese e associazioni. Ha altri progetti in mente?

R. Intendo impegnarmi in prima persona sui temi della lotta al cambiamento climatico e dell'educazione, sia in qualità di consulente sia come investitore.

fch

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September 27, 2021 03:04 ET (07:04 GMT)