ROMA (MF-DJ)--Che c'è di più virtuoso del risparmio? Nei vent' anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale le scuole di ogni ordine e grado rigurgitavano di propaganda governativa a favore del risparmio: giornate del risparmio, premi del risparmio. L'idea di fondo era che la popolazione, a cominciare dalle più giovani generazioni, andasse educata innanzitutto a risparmiare una quota consistente del proprio reddito per doverosa precauzione contro avversità future, ma anche a non tenere il denaro sotto il materasso, bensì a depositarlo in banca così che venisse usato per finanziare gli investimenti necessari a far diventare l'Italia un Paese industriale e moderno.

Era una visione autarchica e finanziariamente arretrata, coerente con lo spirito del tempo. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, l'Italia è entrata decisamente a far parte del novero delle economie più avanzate. L'alto risparmio di un tempo, che ci accomunava a un altro Paese di formiche, il Giappone, si è via via andato riducendo rispetto al reddito nazionale. La propensione al risparmio delle famiglie italiane, cioè la quota non consumata del reddito annuale guadagnato, che era ancora superiore al 20% a metà degli anni Novanta, era scesa intorno al 10% nel decennio scorso, al di sotto del livello prevalente nel resto dell'area dell'euro, prima di impennarsi, da noi come altrove, nel 2020-2021 a causa della grande paura indotta dalla pandemia.

Il problema, dice Salvatore Rossi a Mf-Milano Finanza, oggi non è più quanto le famiglie italiane risparmiano, dando per scontato, come negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, che il loro risparmio finanzi le imprese nazionali attraverso le banche. Il problema è diventato un altro: in quali forme viene investito il risparmio delle famiglie nazionali, in Italia o all'estero; in quali forme le imprese nazionali si finanziano, in Italia o all'estero.

Qui balzano all'occhio alcune anomalie italiane nel confronto internazionale. Per comprenderle bene conviene guardare al cumulo dei risparmi effettuati nel tempo, cioè alle attività complessivamente possedute, e fermarsi nell'analisi a prima della pandemia. Questa ha stravolto i dati, ma presumibilmente li riporterà alla normalità una volta superata.

La prima anomalia è che le famiglie italiane hanno investito i loro risparmi nel corso degli anni molto più in attività reali (abitazioni, ecc.) che finanziarie rispetto agli altri paesi avanzati con cui ci confrontiamo. In altri termini la nostra economia è meno finanziarizzata delle altre. La seconda anomalia è che fra le attività finanziarie sono più presenti le forme liquide, denaro e conti bancari, rispetto a obbligazioni e azioni, sempre nel confronto internazionale, segno di una finanza poco sviluppata anche nella qualità oltre che nella quantità.

La terza anomalia è che i risparmi non mantenuti in forme liquide vengono spesso affidati in gestione a fondi che investono prevalentemente all'estero: come ha messo in evidenza il governatore della Banca d'Italia parlando alla giornata mondiale del risparmio dello scorso 31 ottobre, le azioni e le obbligazioni nazionali nei portafogli dei fondi a cui si rivolgono le nostre famiglie rappresentano il 5% del complesso delle loro attività, a fronte del 34 in Francia e del 14 in Germania. Dunque una quota rilevante dei risparmi delle famiglie italiane è andato a sostenere finanziariamente imprese non italiane, magari concorrenti di queste ultime sui mercati internazionali.

Questo fenomeno non è da imputare a scarso patriottismo da parte delle nostre famiglie. Sentimenti come il patriottismo sono troppo importanti per doversi mescolare con prosaici comportamenti di investimento delle proprie sostanze, che invece è giusto obbediscano alla legge fondamentale del maggior rendimento e minor rischio. Il punto è che, restando i titoli pubblici poco o punto remunerativi, l'offerta di strumenti finanziari attraenti emessi da imprese italiane è ancora insufficiente a convogliare verso di esse una quota maggiore del risparmio nazionale (ed estero). La struttura finanziaria del Paese è inadeguata, riflettendo le peculiarità della struttura produttiva. Questa è dominata da imprese di piccola dimensione, i cui bisogni finanziari sono soddisfatti o dai capitali personali del proprietario o, più spesso, dal credito bancario: un'impresa piccola e familiare trova più facilmente una banca a cui chiedere servizi creditizi tradizionali piuttosto che un investitore o addirittura il mercato obbligazionario e azionario. Ma l'economia italiana ha assoluto bisogno di svilupparsi più dinamicamente di quanto abbia fatto nell'ultimo quarto di secolo, e non può farlo se non attraverso l'innovazione nelle e delle imprese. L'innovazione richiede a sua volta una finanza evoluta. Gli investimenti in innovazione sono particolarmente rischiosi, inoltre le imprese più innovative hanno molto capitale intangibile, difficilmente utilizzabile come garanzia in un rapporto bancario.

La via maestra per finanziare l'innovazione non può che essere aprire e accrescere il capitale proprio, cioè emettere nuove azioni e, da parte dei proprietari originari dell'impresa, accettare di diluire la propria quota, sia pure mantenendo controllo e direzione strategica dell'impresa.

Solo una tale trasformazione della struttura produttiva può determinare la creazione di strumenti finanziari che ambiscano a figurare fra gli investimenti del risparmio nazionale.

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1009:10 ago 2022


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