ROMA (MF-DJ)--Nella Lex Column di mercoledì 2 novembre il Financial Times ha definito la vicenda Tim come «una soap opera» incapace di tramutarsi in «grande opera». La critica è stata estesa anche alle altre due saghe italiche Mps e Ita: secondo il quotidiano della City si tratta di storie corporate che ripetono copioni di insuccesso nel non riuscire a centrare l'appuntamento con il consolidamento e il turnaround aziendale.

Proprio come -ha ironizzato il FT- i continui fallimentari tentativi di Bill Murray di sedurre Andie MacDowell nel film 'Il giorno della marmotta', in cui a ogni sorgere del sole il protagonista torna al punto di partenza e la giornata trascorre inesorabilmente allo stesso modo della precedente. E difficilmente, ha chiosato infine il quotidiano, il governo di Giorgia Meloni cambierà le cose, stravolgendo l'approccio statalista dell'esecutivo in queste tre partite.

Esattamente come l'inesorabile ripetersi delle giornate nella pellicola tirata in ballo dalla Lex, già quest' estate lo scenario delle elezioni anticipate e la probabile vittoria alle urne del centrodestra a fine settembre hanno cancellato tutte le tempistiche previste nel memorandum of understanding (mou) sottoscritto il 29 maggio da Cdp Equity, Kkr (il fondo al 37,5% di Fibercop), Macquarie, Open Fiber e Tim sul progetto di integrazione tra le reti ex Telecom (dorsale e ultimo miglio di Fibercop) e Open Fiber. Riportando le lancette del disegno della rete ultraveloce addirittura al Conte 2, quando a fine agosto 2020, in base a un precedente memorandum, il controllo dell'infrastruttura tlc di nuova generazione -sempre attraverso l'unione di Fibercop e delle due reti di Tim e della società guidata da Mauro Rossetti- sarebbe dovuto rimanere in capo alla compagnia telefonica.

Invece, in base al piano industriale del ceo Pietro Labriola e all'ultimo mou, l'infrastruttura dovrebbe passare dall'orbita Tim a quella di Open Fiber, sotto il controllo e la regia della Cassa di Dario Scannapieco, che di Tim è il secondo azionista con il 9,8% e controlla Open Fiber con il 60% (l'altro 40% è di Macquarie).

Lo scopo? Attraverso una suddivisione fra servizi tlc (ServiceCo) e rete (NetCo) valorizzare tutti gli asset sotto il cappello Tim, far risalire il titolo dell'ex Sip ormai una penny stock a Piazza Affari e dotare finalmente l'Italia, alle prese con i cantieri aperti del Recovery Plan, di un operatore delle reti non verticalmente integrato, al riparo dagli strali dell'Antitrust europeo, in grado di connettere velocemente il Paese. Inizialmente l'offerta non vincolante del compratore Cdp era prevista in estate, quella binding invece entro il 31 ottobre e il closing entro fine dicembre. L'assemblea di Tim avrebbe dovuto ratificare il riassetto a fine anno. Al 31-12 la lunga soap opera della rete unica e del debito monstre che zavorra l'ex Sip, distribuito fra le varie società post-scorpori, sarebbe finalmente terminata e i gufi della City non avrebbero avuto più argomenti contro il capitalismo italico incapace di m&a.

Invece, complice un braccio di ferro sulle valutazioni della rete primaria di Tim di difficile risoluzione, perché il primo azionista (al 23,75%) Vivendi chiede 31 miliardi, mentre i futuri azionisti Cdp, Macquaire e Kkr pare siano disposti a sborsarne solo 15-17, la parola fine non è arrivata. I francesi alzano la posta perché devono rientrare dall'investimento fallimentare in Tim in cui dopo varie svalutazioni hanno ancora il titolo in carico a 0,65 euro. Ben lontano dagli attuali corsi azionari. Non meno rilevanti anche il garbo istituzionale degli attori in gioco nell'attendere il responso delle urne e i desiderata del nuovo governo.

Ora, con una proroga in Zona Cesarini, le parti hanno esteso dal 31 ottobre al 30 novembre l'accordo quadro per formulare l'offerta non vincolante sulla Netco, ma -su input di Vivendi- senza più il vincolo dell'esclusiva che avrebbe condizionato le scelte future. Il che sposta il traguardo al 2023 per la binding offer e può riaprire totalmente la partita, lasciando lo spazio ad altri soggetti interessati come i vari colossi del private equity. Ma è il governo Meloni che rischia di editare una nuova serie Tim, facendola diventare una telenovela infinita. Un assist perfetto per gli ironici corsivi del Financial Times. Ad agosto, il piano di societarizzazione dell'infrastruttura tlc targato Labriola e la creazione di un solo operatore delle reti, non verticalmente integrato, controllato da Cdp e partecipato da Macquarie e Kkr, sono entrati di prepotenza fra i temi di dibattito elettorale dopo le prese di posizione (contrarie) di Fratelli d'Italia.

Con il vento del consenso in poppa, il partito guidato da Giorgia Meloni si è detto intenzionato a spingere invece per il suo Progetto Minerva, un piano ideato dal coordinatore di Fdi per le strategie sulle tlc Alessio Butti e di cui si è solo parlato senza scendere nei particolari. In sostanza si ipotizzano un'opa di Cdp su Tim, che poi ingloberebbe Open Fiber, e la contestuale cessione assieme a Tim Brasil degli asset retail a concorrenti come Iliad per scongiurare un'opposizione da parte dell'Antitrust. Sul mercato andrebbe quindi ServiceCo, ossia la struttura che si occupa degli abbonati fissi e mobili.

«Open Fiber non ha più la credibilità né la capacità di essere il perno dell'operazione sulla rete unica», ha sentenziato poche settimane fa Butti, che si è detto anche contrario a una separazione dell'infrastruttura primaria dalla compagnia telefonica.

«Deve semmai essere Tim - ha concluso - ad aggregare sotto di sè la rete di Open Fiber e deve essere controllata da Cassa.

Con una rete in capo a Cdp e controllata da Tim, l'azienda tornerebbe a essere un asset industriale italiano», ha concluso. Il modello è quello di Eni, Enel e Leonardo.

Il progetto avrebbe il vantaggio di limitare l'esborso di denari da parte della società guidata da Scannapieco, visto che l'ex Sip vale in borsa solo 3,3 miliardi di euro. Ma oltre all'incognita dei paletti comunitari, la scalata dovrebbe corrispondere un premio generoso in favore del socio francese Vivendi (e l'ennesimo copione della soap è già andato in onda nel 2021 con i desiderata d'opa di Kkr). E, soprattutto, metterebbe a dura prova i conti della Cassa che dovrebbe consolidare tutti i 26 miliardi di debito netto che zavorrano la compagnia telefonica.

Resta sullo sfondo la questione ai fini Eurostat della natura di Cdp, controllata all'82,7% dal Tesoro e il perimetro della finanza pubblica.

È bastata l'infornata dei nuovi sottosegretari, fra cui Butti insediato a Palazzo Chigi con la delega (non ancora assegnata formalmente) all'innovazione tecnologica, quella che prima era di Vittorio Colao che aveva parte delle deleghe tlc, per far scattare in borsa nuovamente le azioni Tim sulle ipotesi di opa di Cdp. Scene anche queste già viste ad agosto, sempre per rimanere in tema di soap opera. La fine dell'esclusiva nelle trattativa sulla rete che apre lo scenario di possibili blitz dei fondi e, ancora, la ghiotta vendita di una minoranza di EnterpriseCo, ossia la società dei servizi alle imprese di Tim (altra gamba del piano Labriola), hanno contribuito ad alimentare l'appeal speculativo del titolo e ad allontanarlo dai minimi storici di 0,17 euro toccati il 13 ottobre. Anche se non è ancora chiaro se sarà di competenza del Mise o di Butti, stando a quanto risulta a MF-Milano Finanza, il dossier è seguito da vicino a Palazzo Chigi. Secondo fonti finanziarie l'idea che ora starebbe prendendo piede sarebbe quella di delistare la compagnia con un'operazione che coinvolga tutti, cioè Cdp, Vivendi e i fondi Cvc e Kkr, per poi procedere lontano dai riflettori a uno spezzatino che veda la rete rimanere nelle mani dello Stato attraverso la Cassa. La soluzione bypasserebbe il Piano Minerva ma sarebbe di difficile realizzazione.

Nella telenovela hanno poi appena fatto capolino gli interrogativi sul futuro di Open Fiber e sul piano da rivedere della società creata nel 2016 per infrastrutturare il Paese con la fibra mentre sta tramontando il piano originario di rete unica. L'ennesima puntata della soap opera.

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0709:32 nov 2022


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