ROMA (MF-DJ)--Giorgia Meloni promette un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo. Ma sul fatto che ciò possa rappresentare l'antidoto al rischio di collasso della nostra democrazia esistono seri dubbi. Quelli apparsi chiari nei numeri di domenica 25. Basterebbe il presidenzialismo per recuperare un rapporto paurosamente deteriorato fra la classe dirigente dei partiti e i cittadini? La domanda è tutt' altro che banale.

Grazie a una legge elettorale sconsiderata, promossa a suo tempo dal Pd a trazione renziana e che nessuno ha voluto cambiare, la leader di Fratelli d'Italia prenderà il potere con 7,5 milioni di voti. Potere totale in virtù di una maggioranza di seggi che tocca il 58% alla Camera. E ciò, scrive Milano Finanza, per effetto di una follia contenuta in quella legge, per cui non è ammesso il voto disgiunto, così nei collegi dove un partito o una coalizione prevale al proporzionale automaticamente si aggiudica anche i seggi uninominali. Che sono poi un terzo del totale.

Ma quei 7,5 milioni di voti, pari al 26% del totale, rappresentano il 14% del corpo elettorale.

Come dire che Meloni diventa premier con poteri assoluti per decisione di appena un settimo degli italiani con diritto di voto. O meno di un quarto, se si calcolano i voti dell'intera coalizione di centrodestra. Non c'è qualcosa che non funziona? Va detto che questa non è solo la conseguenza di una legge elettorale senza senso. Il Rosatellum ha semmai approfondito la frattura fra partiti ed elettori, messi ancor più nelle condizioni di non poter scegliere i propri rappresentanti. E ormai la frattura è diventata una voragine che può inghiottire la democrazia parlamentare.

La faccenda è più seria di quanto si possa immaginare. Stavolta sono andati a votare per la Camera 30.439.895 persone. Fa impressione notare che è lo stesso numero del 1958, quando andarono 30.434.681 italiani. Ma allora ovviamente non votavano quelli all'estero: senza di loro il numero si ferma a 29.335.592. Decisamente meno che 64 anni fa, quando però il corpo elettorale contava 32,4 milioni di persone contro i 50,8 di oggi. Qualcuno farà spallucce, ricordando come nel mondo ci siano Paesi dove il sistema democratico è solido nonostante voti meno della metà della gente. Verissimo, ma lì accade da decenni. E la piuttosto giovane Repubblica Italiana ha una storia elettorale decisamente diversa.

Per trent' anni, dal 1948 al 1979, la percentuale dei votanti è sempre stata superiore al 90%. In seguito ha preso a calare ma per altri trent' anni fino al 2008 è rimasta sopra l'80%. Poi la discesa a precipizio. Nel 2013 l'affluenza si è fermata al 75% per ridursi ancora nel 2018 al 73% e piombare ora addirittura al 63,9. Dal 2008 in tre turni elettorali si sono perduti 8,5 milioni di voti validi, di cui ben 5 una settimana fa.

Cioè ci sono 5 milioni di persone che avevano votato nel 2018 e che hanno deciso di non andare più a votare. Cinque milioni sono la popolazione del Lazio o della Campania, oppure la metà della Lombardia. Analizzando le fasce d'età si scopre che sono soprattutto i giovani a non votare più. Il che è terrificante.

Ma ancora più terrificante è il segnale che arriva dal Sud, dove la tenuta del partito di Giuseppe Conte starebbe a dimostrare che sono andati a votare in massa soprattutto i percettori del reddito di cittadinanza, mentre il crollo dell'affluenza, decisamente superiore alla media nazionale, indica che qui a disertare le politiche è stata la classe media. Su 16,2 milioni di elettori i voti validi nelle regioni meridionali sono risultati meno di 8,5 milioni. Ossia il 52,3%. In quattro anni e mezzo si sono perduti al Sud, che rappresenta il 35% del corpo elettorale italiano, 2.186.013 voti validi, pari al 46% di tutti quelli persi nel Paese (senza quindi considerare l'estero) fra il 2018 e il 2022. E c'è da riflettere su che cosa sarebbe accaduto se il discutibile sussidio ideato dal Movimento 5 Stelle non avesse dato una spinta alle urne.

Alcuni dati regionali e provinciali sull'affluenza sono spaventosi. In Calabria ha votato il 50,8%, 13 punti in meno del 2018. In Campania siamo al 53,2, ben 15 punti sotto il 2018. Nella provincia di Napoli l'affluenza è stata del 50,78% contro il 65,34 del 2018. In Sardegna Nuoro e Oristano sono al 50% con cali di 14 punti sul 2018. Se in Campania nessuna provincia ha raggiunto il 60%, lo stesso è accaduto in Puglia e Molise, altre regioni dove l'affluenza è precipitata di ben 15 punti. In Calabria le province di Crotone e Reggio sono sotto il 50%: rispettivamente 45,9 e 48,9. In vent' anni a Reggio Calabria la partecipazione al voto per le elezioni politiche è scesa di 27 punti; a Crotone addirittura di 34. Ci sono comuni calabresi dove le urne sono andate pressoché deserte. A Platì ha votato il 32%, ad Africo il 31,1 e a San Luca il 21,9. La democrazia parlamentare sta collassando soprattutto al Sud. Ma forse c'era da aspettarselo. Qualcuno nelle segreterie dei partiti se ne sarà accorto?

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0308:27 ott 2022


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