Più che recuperato l'anno dopo con un utile record di 295 milioni su ricavi risaliti a 3,36 miliardi. L'attivo consolidato del gruppo della moda è di quasi 7 miliardi, con un patrimonio netto di 3,11 miliardi. La liquidità abbonda con 981 milioni di cassa disponibile e la posizione finanziaria netta è positiva per 237 milioni. Prada vanta riserve cumulate nel tempo e distribuibili per 1,5 miliardi.

AGNELLI-ELKANN. Il ciclone giudiziario sulle plusvalenze fittizie che si è abbattuto sulla Juventus si è riflesso sulla controllante Exor che del club bianconero possiede il 63%. Ma è più uno schiaffo reputazionale (cui John Elkann è molto sensibile) che un problema finanziario per la holding olandese. La Juve vale meno del 2% degli asset anche se negli ultimi tre anni ha pesato per quasi 400 milioni di perdite. Elkann può comunque consolarsi con Ferrari, che sta risalendo in borsa ai massimi di sempre e che vale da sola 10 miliardi, il 40% di tutto l'attivo netto di Exor, che nel giugno scorso era di 25 miliardi. Gli altri pezzi pregiati sono Stellantis, Cnh e Iveco, che apportano 12 miliardi. Poi l'anno scorso c'è stato l'incasso di 8,6 miliardi dalla cessione di PartnerRe con una plusvalenza sui valori di libro di 2 miliardi. Un'exit strategy di grande tempismo, dato che il gruppo riassicurativo è reduce da una perdita di 1 miliardo.

Liquidità che porta la posizione finanziaria netta in positivo e garantisce almeno 6,5 miliardi di munizioni per nuovi investimenti, come ha riferito agli analisti nel novembre scorso lo stesso Elkann.

Ormai la strategia di crescita è definita. I settori che interessano alla finanziaria sono sanità (acquisite quote in Merieux e Lifenet), lusso (Loboutin e Shangxia) e tech. È circolata l'ipotesi di un deal sulla ricca Armani, anche se è stato finora smentito dalla società. Pesa lo sconto storico in borsa sul nav, che continua a essere ampio, intorno al 30%. Ma non puoi avere i vantaggi di una holding senza scontare nulla sul mercato. Del resto Exor ha dato soddisfazioni ai suoi soci con il nav cresciuto di oltre il 60% negli ultimi cinque anni. Dopo il maxi-dividendo straordinario incassato a seguito dalla fusione Fca-Peugeot, Exor è tornata alla consueta politica di dividendi da 100 milioni l'anno che affluiscono nella Giovanni Agnelli Bv (52% di Exor) e da lì nelle casseforti personali dei rami della famiglia, in particolare nella Dicembre dei tre fratelli Elkann che della Giovanni Agnelli possiede il 38%. Il dominus della dinastia, John Elkann, che della Dicembre ha il 60%, siede di fatto su 3 miliardi di valore netto di Exor. Potenza delle scatole cinesi tanto care agli Agnelli, che consentono con poco capitale di governare su imperi miliardari. Il capitale sociale della Dicembre è 100 milioni, dei quali 60 li ha messi il capo degli affari della famiglia. Sessanta milioni che generano 3 miliardi di valore patrimoniale. Potenza della leva.

ARMANI. Che sia o meno nel mirino di Exor, Armani continua nella sua solida marcia. Nel 2021 ha fatto ricavi per 2 miliardi dagli 1,6 dell'anno prima. Utili netti a 170 milioni, dividendo da 100 milioni e in cassa liquidità per 1,1 miliardi e un capitale netto che supera i 2 miliardi. L'emblema della moda italiana resta un uomo solo al comando blindato da tanta ricchezza. E comprarsi Armani vorrebbe dire pagare molti soldi. L'intero gruppo, se valorizzato con i multipli tipici del lusso quotato di fascia alta, vale oggi tra 8 e 10 miliardi. Non alla portata di tutti, forse neanche di Exor.

BERLUSCONI. Il 2021 era stato l'anno del ritorno del dividendo da parte di Fininvest. La cedola staccata è stata di 150 milioni per la sola famiglia. Oltre 93 milioni finiti nelle tasche di Silvio Berlusconi, che ha una quota complessiva del 62,5% della holding del Biscione. A Marina e Pier Silvio (7,8% a testa) sono andati 11,7 milioni ciascuno, mentre agli altri tre figli Barbara, Eleonora e Luigi sono finiti 32,7 milioni in virtù di una quota complessiva del 21,9%. Il consolidato Fininvest ha chiuso i conti con 3,8 miliardi di ricavi, un utile di gruppo salito a 360 milioni, un patrimonio netto di 3 miliardi, cassa per 560 milioni e una posizione finanziaria netta negativa per 1,1 miliardi. Sono i frutti delle quote di spettanza delle tre «M» di casa Berlusconi: Mediaset (oggi Mfe); Mondadori e Mediolanum. Proprio la ex Mediaset è a caccia di una grande acquisizione sul mercato televisivo europeo a partire da quella ProSieben di cui è socio forte col 25%. Del resto se il mercato pubblicitario della tv generalista si restringe, non resta che un consolidamento sul scala europea. Mfe però ha scontato nel 2022 un forte calo dei prezzi di borsa che si sono quasi dimezzati sia per le azioni di classe A che quelle di classe B. Uno scambio carta contro carta oggi è penalizzante per il Biscione, che può sì mobilitare risorse per 1 miliardo ma ha un debito finanziario netto di oltre 800 milioni. Il 2022 dovrebbe chiudersi con ricavi e utili più bassi dell'ottimo 2021.

Il tema vero per la tv di Berlusconi è resistere alla concorrenza dello streaming delle pay tv, le varie Netflix e Disney che conquistano quote di mercato.

Compito non facile in un business pubblicitario che più di tanto non può crescere. Prova ne è che i ricavi dell'ex Mediaset sono in lenta contrazione nel tempo. Negli ultimi cinque anni il fatturato perso è stato di quasi il 15%. Mondadori invece tiene botta sul mercato, surclassando altri editori, in primo luogo Feltrinelli, in forte declino. La casa editrice ha chiuso i 9 mesi del 2022 con ricavi in forte crescita e con un utile operativo al 12% del fatturato. Mediolanum resta una grande certezza pur con i mercati finanziari in crisi e il Monza Calcio regala soddisfazioni sportive. Un po' meno per i conti della Fininvest, dato che solo nell'annualità 2021 la squadra ha chiuso in perdita per 31 milioni dopo il rosso di 26 milioni del 2020 e la Fininvest ha dovuto ricapitalizzare finora per 45 milioni. In fondo poca cosa per la finanziaria. Il consenso mediatico e di visibilità che crea il calcio ha effetti non monetari impagabili. E Berlusconi lo sa bene.

BENETTON. La tragedia del Ponte Morandi a Genova poteva essere esiziale per la galassia dei Benetton, riunita nella holding Edizione che a sua volta è posseduta storicamente da quattro scatole societarie (Proposta, Regia, Ricerca ed Evoluzione) che sono le casseforti personali dei rami della famiglia di Ponzano. Divenute sette dopo le scissioni interne a Evoluzione (ramo Giuliana Benetton). Invece a distanza di oltre quattro anni dal crollo del ponte autostradale Edizione è più viva che mai. Un lungo percorso tappezzato da polemiche di ogni tipo ma che alla fine ha portato la famiglia fuori brillantemente dall'impasse creata dal disastro che poteva avere conseguenze economiche finanziarie molto pesanti.

La cessione di Autostrade per l'Italia alla cordata semi-pubblica formata da Cdp e dai fondi Macquarie e Blackstone, formalizzata in via definitiva nel 2022, ha comportato un incasso cash per Atlantia di 8,2 miliardi, una plusvalenza di 5,3 miliardi per la holding industriale, di cui Edizione possiede il 33%, e soprattutto il deconsolidamento del debito monstre di Atlantia per altri 8 miliardi che hanno portato l'indebitamento netto finanziario a 20 miliardi dai 30 del 2021. Un capolavoro finanziario per i soci di Atlantia, i quali hanno rinunciato a un asset ad alta profittabilità che sforna in media 800 milioni di utili netti all'anno, ma hanno incassato subito un decennio di utili dell'ex Aspi. E soprattutto la manovra ha consentito di ridurre fortemente il debito finanziario in capo ad Atlantia, che si era indebitata per l'affare Abertis. Ma che fare di Atlantia senza più quella gallina dalle uova d'oro, ma compromessa dopo il disastro, rappresentata da Autostrade per l'Italia? Ci ha pensato Alessandro Benetton, uomo guida della famiglia veneta: comprarsela tutta e portare così più vicino o, meglio, più disponibile a Edizione il flusso di futuri utili e dividendi. Il tutto con meno debito. Un'operazione che si è concretizzata proprio alla fine dell'anno scorso con l'opa sul 100% e il delisting dalla borsa e ha visto i Benetton compartecipare con i fondi di Blackstone, che hanno contribuito con il 35%. Il costo di 12,7 miliardi per rilevare oltre il 66% di Atlantia è stato coperto per poco più di 4 miliardi dall'equity apportato dai fondi e per poco più di 8 miliardi da finanziamenti bancari alla scatola che ha lanciato l'opa, subito ripagati da Atlantia con i famosi 8 miliardi di incasso dalla vendita di Aspi. Un vero capolavoro finanziario. Con un saldo finanziario di fatto a somma zero per i Benetton. La vendita di Aspi ha consentito di comprarsi il 65% dell'intera Atlantia raddoppiando la presa dei Benetton. Atlantia vive bene anche senza Autostrade. C'è Abertis, di cui Atlantia ha il 50% più un'azione della controllante che gestisce una rete di autostrade europee. Abertis ha quasi del tutto recuperato i volumi di traffico pre-Covid e nei primi 9 mesi del 2022 ha prodotto un margine industriale sui ricavi del 69%. Le reti autostradali di Atlantia in Sudamerica e Polonia hanno un ebitda margin ancora più alto: 75%. Gli aeroporti, da AdR a quello di Nizza, hanno molto patito il blocco dei viaggi a causa della pandemia ma ora sono in forte ripresa con la marginalità lorda salita al 46% dal 3% del 2021. Insomma, pur con il venir meno dell'apporto di Aspi Atlantia ha ritrovato la consueta profittabilità e in più ha abbassato molto la leva debitoria. Frutti che Edizione, la holding della famiglia, raccoglierà in quantità doppia dopo l'opa rispetto al passato. Intanto nel 2022 è stato deliberato un dividendo da 600 milioni ai soci di Atlantia.

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February 13, 2023 03:33 ET (08:33 GMT)