MILANO (MF-DJ)--Il petrolio del Kurdistan iracheno non riesce più a raggiungere i mercati internazionali, bloccato da dispute con Baghdad che faticano a ricomporsi e che rischiano di penalizzare in modo particolare l'Italia. Erbil è infatti balzata al primo posto tra i nostri fornitori di greggio in seguito all'embargo contro Mosca, inviandoci a gennaio 4,5 milioni di barili, o 150mila barili al giorno, pari al 12,5% del totale delle nostre importazioni, stando agli ultimi dati statistici del Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica.

Nel gennaio 2022, quando la guerra in Ucraina non era ancora cominciata, avevamo comprato appena 1,2 milioni di barili curdi, meno di un terzo rispetto ad oggi, ma in compenso ci erano arrivati 5,7 milioni di barili di Urals dalla Russia, forniture che dal 5 dicembre scorso sono diventate off limits, scrive il Sole 24 Ore. Il greggio curdo Kirkuk sarebbe stato «un'ovvia alternativa per i raffinatori del Mediterraneo», aveva previsto mesi fa Argus. E così è stato. Le caratteristiche sono infatti simili: il grado Api (che indica il peso specifico rispetto all'acqua) è 30 come per l'Urals, mentre il tenore di zolfo è solo di poco superiore nei barili curdi. Inoltre le forniture di Erbil sono - o meglio erano - a portata di mano, trasportate via tubo fino al "Mare Nostrum". Questo fino alla settimana scorsa. Perché nel weekend si è fermato tutto e col passare dei giorni aumenta il timore che la situazione si trascini a lungo, con impatti che potrebbero diventare difficili da gestire, anche se le quotazioni del petrolio riflettono solo in parte le inquietudini: il Brent si è riavvicinato a 80 dollari al barile, ma il rally sembra essersi già sgonfiato dopo un rialzo di quasi il 10% in due sedute.

Il greggio curdo (compreso quello estratto a Kirkuk) da sabato non viene più caricato sulle petroliere che salpano da Ceyhan, terminal turco sul Mediterrano. E l'oleodotto che trasportava circa 400mila barili al giorno dalla regione autonoma del Kurdistan allo stesso terminal è stato fermato. Una volta esaurito lo spazio nei depositi di stoccaggio bisogna fermare anche i giacimenti. E ieri ha capitolato il maggior produttore dell'area, la norvegese Dno, che ha chiuso i rubinetti a Tawke e Peshkabir, due campi da cui venivano estratti 110mila barili al giorno.

La canadese Forza Petroleum (ex Oryx) aveva già dovuto fermare 13.700 bg di produzione. Per gli altri operatori - tra cui Genel Energy e Gulf Keystone Petroleum, quotate a Londra, e la texana Hkn Energy - è partito un conto alla rovescia, che in assenza di una svolta scadrà tra pochi giorni. Poi bisognerà chiudere. Con conseguenze drammatiche non solo per le società coinvolte (alcune delle quali sono attive solo in quell'area geografica), ma anche e soprattutto per Erbil, che dal petrolio deriva oltre metà delle entrate.

L'autonomia curda nel nord dell'Iraq è da sempre ai ferri corti con il governo centrale di Baghdad sulla ripartizione dei proventi dell'export di idrocarburi. A precipitare la situazione è stata la fine di un arbitrato che si trascinava da nove anni alla Camera di commercio internazionale di Parigi: la corte ha dato ragione a Baghdad, che sosteneva che il transito del greggio curdo in Turchia violasse un accordo del 1973, consentendo esportazioni senza previo consenso del governo centrale. Ci sarebbe anche una multa di 1,5 miliardi di dollari comminata alla Turchia, anche se Ankara rivendica a sua volta di essersi vista riconoscere il diritto a tariffe di transito arretrate. I dettagli della sentenza, emessa giovedì scorso, non sono ancora emersi. Ma le conseguenze sono state immediate: tutto fermo, in attesa che le parti riescano a trovare un accordo.

Da Baghdad il ministero del Petrolio ha assicurato di voler definire al più presto con le autorità curde e turche un «meccanismo per esportare il petrolio iracheno (sic) attraverso il porto di Ceyhan». Da Erbil il ministero delle Risorse naturali ha replicato che il governo locale «non rinuncerà ai diritti costituzionali del popolo curdo». Si è invece mostrato fiducioso il premier curdo Masrour Barzani, affermando via Twitter che recenti colloqui con Bagdad hanno «gettato le basi per andare oltre il risultato dell'arbitrato».

Un primo incontro, avvenuto a caldo domenica a Baghdad, non sembra però aver sortito risultati incoraggianti: dopo poche ore la delegazione curda è ripartita e secondo fonti Bloomberg non è stato fissato il prossimo appuntamento. La mancanza del greggio curdo per ora non pesa sul mercato: gli scioperi in Francia hanno paralizzato anche il settore della raffinazione - fermando almeno 900mila barili al giorno di capacità su un totale di 1,1 milioni stima Bloomberg - e nel Mediterraneo ci sono molte petroliere pronte a cambiare rotta, recapitando altrove il loro carico. Ma se Baghdad ed Erbil non usciranno presto dall'impasse la situazione potrebbe complicarsi, soprattutto per l'Italia e in generale per i Paesi Ue. Per la Turchia, altro grande acquirente di greggio curdo, la soluzione sarà probabilmente un ulteriore aumento dell'import dalla Russia.

red


(END) Dow Jones Newswires

March 30, 2023 03:27 ET (07:27 GMT)