A differenza di H&M - discusso in queste colonne qualche giorno fa - che da anni fatica a risollevarsi, Fast Retailing mostra una performance operativa paragonabile a quella di Inditex.

La differenza tra i due campioni è che il giapponese ha sofferto di una svalutazione ininterrotta dello yen nell'ultimo decennio. In tal senso, nonostante una crescita tecnicamente superiore, in base al tasso di cambio in euro o in dollari è il gruppo spagnolo proprietario di Zara a spuntarla.

Uniqlo sfrutta brillantemente un modello intelligente: le sue collezioni, prodotte a basso costo in Asia, sono ultra-minimaliste e altamente standardizzate, il che non impedisce alla marca di godere di un'autentica aura di qualità tra i suoi clienti.

Il successo merita di essere elogiato e permette al gruppo di realizzare margini operativi a due cifre, benché inferiori a quelli di Zara. Il motivo risiede nei numerosi "flagship stores" di Uniqlo, laddove Zara ha scelto di ridurre al minimo la superficie dei suoi negozi.

Il rischio principale rimane la sovraesposizione di Uniqlo al mercato cinese, che rappresenta ancora più di due terzi delle vendite internazionali del marchio. Una tendenza di moda che si affievolisce o un boicottaggio, ad esempio in seguito a un raffreddamento delle relazioni sino-giapponesi, avrebbero gravi conseguenze.

Per mitigare ciò, Uniqlo investe molto aggressivamente in Europa e negli Stati Uniti. Il successo commerciale è garantito, ma lo sforzo di espansione pesa sui margini e la strada da percorrere è ancora lunga: Uniqlo ha oltre 900 negozi in Cina, 800 in Giappone e meno di 650 nel resto del mondo.

È notevole che il mercato abbia sempre valutato Fast Retailing con un netto sovrapprezzo rispetto a Inditex, nonostante la performance operativa superiore dello spagnolo. La sovraesposizione alla Cina - il più grande mercato di consumo al mondo - giustifica chiaramente questa differenza di trattamento. Spetta a ciascuno valutarne la legittimità.