MILANO (MF-DJ)--La prima risposta che Pellegrino Capaldo fornisce all'intervistatore che gli chiede un giudizio dell'operato di Mario Draghi, che fu suo studente così come Carlo Messina, è schiva come la sua natura: «Preferisco non dare giudizi», afferma gentile all'inizio di questa intervista a MF-Milano Finanza.

Poi, insistendo, il banchiere-professore, che ha vissuto tante fasi della storia italiana del credito e della finanza, si lascia andare ed esprime il suo parere sul premier: «Conosco personalmente il grande valore del presidente Draghi e sono assolutamente certo e convinto che farà bene. Credo sia una grande fortuna per il nostro Paese avere una guida così autorevole in questo momento complesso. Non ho dubbi che saprà gestire al meglio, grazie alle sue spiccate doti politiche, l'attuale situazione in cui versa l'Italia». La chiacchierata con il Cuccia romano comincia da qui, in una bella giornata d'aprile che quasi fa dimenticare l'Italia del virus.

Domanda. Professor Capaldo, ultimamente si ha l'impressione che ci sia più liquidità che banche disposte a gestirla. Alcuni istituti hanno chiesto ai clienti con c/c sopra i 100.000 euro di chiudere il conto se non investono da loro. Che segnale è?

Risposta. Certamente non è un buon segnale poiché è indice di incertezza da parte dei correntisti e della popolazione in generale. Quanto sta accadendo nel Paese, che ad oggi vanta circa 1.800 miliardi di euro di risparmi privati, non rappresenta un aspetto positivo neanche per il settore bancario in quanto i grandi depositi con somme immobilizzate e non investite rappresentano una fonte di costi crescenti per gli istituti. Osservo ulteriormente che la pandemia ha bloccato i piani di acquisto e di investimento non solo delle aziende ma anche delle famiglie, quindi l'aumento di liquidità deriva certamente da questi fattori. Tuttavia è la fascia d'età adulta ad aver incrementato i risparmi, non i giovani. Questo è un altro dato preoccupante. Il processo di accelerazione del risparmio liquido, pur comprensibile vista la pandemia, non dovrebbe durare troppo perché il suo impatto macroeconomico è recessivo e quindi negativo per il sistema-Paese. È anche vero che la tendenza al risparmio degli italiani è una caratteristica storica che ci distingue dal resto delle nazioni europee e del mondo.

D. Il settore bancario in questo anno di crisi ha retto, soprattutto in Italia. Solo nel 2020, come ha raccontato MF-Milano Finanza, le aziende quotate a Piazza Affari hanno però perso 100 miliardi di ricavi. Come si riempirà questo buco? Le banche potranno fare la loro parte?

R. Guardi: non c'è dubbio che il ruolo delle banche nel rilancio dell'economia del Paese è centrale, ma temo non basti. Molti istituti bancari hanno messo in campo programmi e iniziative a sostegno delle imprese, il che è meritorio. Per recuperare la competitività persa sia sul mercato interno sia su quello internazionale è fondamentale oggi per le imprese investire sulla crescita e su quella transizione sostenibile di cui si parla molto. Qui il sistema bancario può dare un supporto concreto. Programmi come quello di Intesa Sanpaolo sono strategici e fondamentali per le imprese. Poi però la politica e le istituzioni devono fare la propria parte con politiche di sostegno concreto alle pmi, utilizzando strumenti straordinari visto il periodo complesso che l'economia sta attraversando. Bisogna però fare presto poiché il calo di fatturato di molte aziende è notevole e avrà riverberi negativi anche sull'occupazione.

D. In Italia è in pieno corso il risiko bancario, che viene promosso da tutte le istituzioni di controllo e vigilanza. Qualcuno vorrebbe però che nascesse anche una banca pubblica, nello specifico tenendo Mps sotto il controllo del Tesoro. Lei, che ha vissuto da protagonista la stagione delle privatizzazioni bancarie, pensa che sia utile anche oggi una banca pubblica?

R. Da tempo si dibatte in Italia intorno alla ricostituzione dell' Iri. Secondo me, la questione non è «avere una banca pubblica oppure no», ma è un' altra, così sintetizzabile: l'Italia può affidare la sua economia, il suo sviluppo, la sua crescita anche civile, il suo sistema infrastrutturale unicamente alle forze di mercato, ovvero ai privati, oppure è necessario qualcosa che disciplini e soprattutto che integri queste forze con il pubblico? Credo che l'intervento pubblico debba porsi in alcuni snodi nevralgici e deve fare ciò che i privati non fanno perché sono richiesti grandi investimenti non alla loro portata o perché la loro redditività li scoraggia essendo ritenuta non congrua rispetto ai rischi. Secondo me, di qualcosa che assomigli all' Iri o a una banca pubblica abbiamo bisogno, evitando naturalmente alcuni errori commessi in passato.

D. Come dovrebbe operare?

R. Occorre una protezione del tessuto industriale del Paese, della filiera e dell'indotto di determinati settori. Non perché ci sia bisogno di nazionalizzare ma perché le sfide che si pongono davanti, anche in termini ambientali, necessitano di un accompagnamento pubblico nell'interesse della comunità e del Paese.

D. Il Recovery Fund sarà sufficiente a far riprendere l'economia europea dopo il Covid oppure bisogna anche cambiare le regole di bilancio?

R. Se si vuole recuperare l'identità originale del progetto europeo e preservare i valori fondanti dell'Unione è necessario ripensare anche parzialmente le politiche economiche e la loro applicazione. Il Recovery Fund è certamente un'occasione storica per rilanciare l'economia, ma a patto che le risorse siano spese e gestite in modo opportuno. Credo sia necessario individuare figure preparate e competenti che gestiscano l'afflusso degli aiuti tenendo bene a mente le ricadute occupazionali e il rafforzamento del potere d'acquisto. Queste sono le chiavi per incidere davvero. Se non si favoriscono gli investimenti industriali e la conseguente creazione di posti di lavoro, dubito che avremo risultati tangibili nel rilancio della nostra economia. La ripresa poi passa assolutamente dalla rigenerazione dei posti di lavoro; solo in questo modo potremo creare nuova ricchezza. Tra sussidi e investimenti errati rischiamo di perdere un'occasione irripetibile. Mi piace osservare quello che sta facendo il dipartimento della pubblica amministrazione; ci sono figure molto preparate, tra cui cito con piacere Bernardo Giorgio Mattarella, uno dei membri fondatori della Scuola Politica «Vivere nella Comunità».D. In Francia si sta valutando se proporre una sorta di sterilizzazione del debito pubblico pandemico; è una strada percorribile, secondo lei?R. Non credo che ciò avverrà. Il trattato di Lisbona prevede che la Bce sia indipendente dai suoi Stati membri e che le sia vietato finanziarli. Per cancellare o sterilizzare il debito pubblico bisogna modificare i trattati Ue e questo implica una negoziazione da parte di tutti gli Stati, al momento inverosimile. Una decisione che richiederebbe l'unanimità, aspetto difficilmente realizzabile. Ricordiamoci anche che la mutualizzazione del debito pubblico ha già creato fratture e discussioni articolate tra alcuni Paesi dell'Ue (del Nord e del Sud, ndr). Non credo quindi sia una strada percorribile; auspico che al termine della crisi la questione del debito pubblico venga messa seriamente in cima all'agenda delle banche centrali e dei governi poiché si rischia davvero di pesare troppo sulle future generazioni.

D. La finanza italiana è di nuovo interessata a quello che accade intorno a Mediobanca e Generali. Secondo lei è venuto il momento di un riassetto o di una fusione tra queste aziende così importanti per l'Italia?

R. Personalmente sarei propenso a lasciare intatti gli attuali assetti a cui lei si riferisce. In seguito vedremo. A Mediobanca, che conosco bene avendone fatto parte come membro del cda, auguro di trovare presto una figura come il mio compianto amico Enrico Cuccia. Lui era un uomo di grandissima classe e visione, capace di gestire al meglio una realtà complessa come Mediobanca nell'interesse di tutto il Paese. Auspico il meglio anche per Generali, dove grazie all'importante guida del presidente Gabriele Galateri di Genola la società ha conseguito considerevoli traguardi.

D. In carriera lei non si è occupato solo di banche e di grandi operazioni finanziarie; da professore ha spesso sottolineato l'importanza della formazione dei giovani e del ruolo centrale delle competenze. Per questo è nata la Scuola Politica «Vivere nella Comunità»?

R. Da molte parti si sentiva il bisogno di creare per la prima volta in Italia una scuola politica apartitica, nella quale fossero presenti i più autorevoli rappresentanti del settore pubblico e privato. Il nostro progetto formativo si caratterizza per una forte vocazione civile e istituzionale, come ha affermato recentemente il mio caro amico Sabino Cassese. È il nostro modo di contribuire alla formazione delle future classi dirigenti. Abbiamo avuto un'adesione straordinaria da parte delle aziende e dei vari professionisti anche perché, oltre al percorso formativo per gli studenti, abbiamo pensato a un luogo dove discutere e dibattere temi riguardanti tutto il Paese in un consesso indipendente ed autorevole, scevro da qualsivoglia etichetta. L'iniziativa sta riscuotendo molto interesse e a breve apriremo il bando per la seconda edizione che partirà a novembre, organizzando ulteriori incontri fra i membri fondatori della Scuola. Il Supervisory Board, coordinato da Paolo Boccardelli e Marcello Presicci, ha lavorato in maniera egregia in questi mesi contribuendo in modo decisivo allo sviluppo della Scuola. A tutti loro, alle aziende e ai docenti coinvolti va il nostro più profondo ringraziamento per l'impegno profuso e per il loro

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