PECHINO (awp/ats/ans) - La scossa non c'è stata. La Banca centrale cinese è intervenuta sui tassi, ma in misura inferiore alle previsioni: il taglio è stato di appena 10 punti base, al 3,45%, nel caso del Loan prime rate (Lpr) a un anno, tra i tassi preferenziali offerti dalle banche commerciali alla clientela migliore. Del tutto incomprensibile, invece, è stata la conferma del tasso a cinque anni al 4,2%, il benchmark per i mutui immobiliari che più di ogni cosa necessitava di un segnale forte della leadership comunista nel mezzo della crisi del real estate.

Eppure, le aspettative erano alte all'indomani della nota con cui la stessa Banca centrale ha dato conto della riunione di venerdì tra autorità di regolamentazione e dirigenti degli istituti di credito al fine di incoraggiare i prestiti per sostenere la ripresa di un'economia in forte deterioramento, anche con aggiustamenti specifici per ottimizzare i mutui per la casa.

Di riflesso, mancata la limatura di almeno i 15 punti base attesi dagli economisti, lo yuan è stata la prima spia del malessere dei mercati: il renminbi è finito sotto pressione, superando quota 7,3 sul dollaro fino ai minimi dal 2007. I listini di borsa, tra Hong Kong, Shanghai e Shenzhen, hanno progressivamente perso slancio finendo per chiudere con perdite tra l'1% e il 2%, in netta controtendenza rispetto al trend positivo prevalente in Asia.

Ma quale è il malessere della Cina? Il boom, secondo il modello economico che l'ha sollevata dalla povertà e l'ha portato a essere un gigante, è ormai in difficoltà, finito contro la grande muraglia dell'indebitamento. Il Dragone sta "annegando nel debito ed è a corto di cose da costruire", ha notato e scritto il quotidiano newyorchese The Wall Street Journal (Wsj), secondo cui i segnali di difficoltà non risparmiano neanche le province più remote.

Se il debito complessivo aveva raggiunto a fine 2022 tre volte il prodotto interno lordo (Pil), la vera mina esplosiva è rappresentata dai veicoli di finanziamento dei governi locali (Lgfv), stimati in 59'000 miliardi di yuan (7154 miliardi di franchi) alla fine dello scorso anno, secondo una recente ricerca di Rhodium Group. È debito "nascosto", maturato attraverso percorsi di finanziamento alternativo per le autorità locali a corto di liquidità, a cui Pechino impedisce di raccogliere capitali con mezzi diversi dalle obbligazioni. Il governo centrale ha inviato di recente ispettori in almeno una ventina di province in difficoltà per poter mettere a punto piani di intervento mirati con l'autorizzazione ad emettere obbligazioni a rifinanziare gli oneri in scadenza.

Senza aggressivi stimoli da parte di Pechino e in mancanza di sforzi per sostenere il settore privato, ha aggiunto il Wsj, alcuni economisti temono che il prolungato rallentamento possa trasformarsi in una stagnazione simile a quella sperimentata dal Giappone dagli anni '90, quando lo scoppio della bolla immobiliare causò anni di deflazione e di crescita limitata.

Per far ripartire l'economia, accantonati i progetti faraonici a debito, Pechino si è trovata bloccata in una posizione in cui la "soluzione" a una serie di problemi non fa che peggiorare un'altra serie di problemi. Il motivo, ha osservato Michael Pettis del Carnegie Endowment, think tank apartitico specializzato in politica estera, "è molto più semplice. L'unico modo (in teoria) in cui la Cina può rilanciare in modo sostenibile l'economia richiede trasferimenti di reddito molto ampi (e politicamente controversi). Finora nessuno li ha proposti. Senza una (improbabile) redistribuzione del reddito che riequilibri i consumi, il tasso di crescita sostenibile della Cina è del 2-3% o meno".

Per questo, ha continuato Pettis su X (l'ex Twitter), "se Pechino vuole tassi di crescita più elevati, deve accettare maggiori investimenti non produttivi e, con essi, un'impennata del debito. Se vuole frenare il suo aumento, deve accettare una crescita inferiore". Scenari complessi segnati da crisi dell'immobiliare, stagnazione dei consumi e frenata dell'export su cui, non secondari, pesano le tensioni esterne, a partire da quelle sempre più aspre con gli Stati Uniti.