ROMA (MF-DJ)--Immaginate la scena. Una stanza al settimo piano in un palazzo storico nel centro di Roma. Un lungo tavolo di legno lucido e una ventina di persone indaffarate, chi davanti a un pc, chi al telefono, chi prende appunti affannosamente. Tutti seduti. Di riunione in riunione ormai ognuno torna allo stesso posto. A quel tavolo sono seduti i vertici tecnici dei ministeri più importanti della Repubblica Italiana e i rappresentanti dei due più grandi azionisti di Telecom Italia ossia Cassa Depositi e Prestiti e il colosso francese Vivendi. Sembra un delicato vertice di politica internazionale, invece si sta decidendo del futuro delle infrastrutture di telecomunicazioni insieme a quello di Telecom Italia.

Al tavolo, scrive Milano Finanza, il clima è costantemente descritto da chi partecipa come «costruttivo», l'obiettivo dichiarato è trovare una soluzione entro la fine dell'anno. Ogni volta che qualcuno chiede: quando indicherete una soluzione, almeno di massima, al mercato? La risposta è sempre «presto», con un tono che fa trapelare ora ansia ora quasi rassegnazione. Che il tema sia di primaria importanza lo dimostra il fatto che si sono tenuti già tre incontri nel giro di una settimana, nonostante il governo sia impegnato in una partita vitale come l'approvazione del bilancio.

La riunione appena descritta si è realmente tenuta al Ministero delle Imprese e del Made in Italy giovedì 22 dicembre 2023. E se fosse la scena iniziale di un film, questo sarebbe il momento del flashback. Uno stacco netto per far capire come si è arrivati a questo punto, dove sono nati i problemi e chi e cosa ha poi sempre più complicato la situazione. Quel flashback riporterebbe lo spettatore indietro di 25 anni. Il momento chiave è l'autunno del 1997. Un anno prima, nel 1996, Romano Prodi ha sconfitto il Polo per le libertà di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche e ora «Il Professore» è presidente del Consiglio. Carlo Azeglio Ciampi è ministro dell'Economia, Mario Draghi è direttore generale del Tesoro e l'euro non è ancora entrato in vigore, ma l'Italia è determinata a far parte della moneta unica e ha avviato un percorso che porterà alla privatizzazione di molte delle società a controllo pubblico. Quella di Telecom Italia viene oggi definita da tutti gli storici «la madre di tutte le privatizzazioni». I problemi della società che oggi opera con il marchio di Tim, per molti sono iniziati proprio in quel momento e non dopo.

Negli anni a venire la situazione si è ulteriormente complicata. Qualcuno aggiunge «irrimediabilmente» complicata. E nel corso delle prossime settimane MF-Milano Finanza ripercorrerà le tappe significative che hanno portato Telecom a trovarsi oggi al centro di un tavolo tecnico-politico di primaria importanza per il Paese. In 25 anni si sono susseguiti 10 amministratori, un turnover vorticoso il cui ritmo peraltro è andato in crescendo nel corso degli anni. Gian Mario Rosignolo, Franco Bernabé (per due volte), Roberto Colaninno, Marco Tronchetti Provera, Marco Patuano, Flavio Cattaneo, Amos Genish, Luigi Gubitosi e da ultimo Pietro Labriola. A seconda di chi racconta la storia il punto di vista è diverso, i dettagli su cui concentrarsi cambiano. Ma i dati non mentono. Guardando ai numeri rettificati della società da quando è in vigore l'euro, Telecom Italia in 25 anni ha bruciato quasi 20 miliardi di valore. Più di quanto fatto da quasi tutti i competitor a livello europeo. E per ripercorrere le tappe di questa storia bisogna tornare ai giorni della privatizzazione, quando tutto è iniziato.

Nell'ottobre del 1997 Telecom Italia è un colosso internazionale. Fattura 23,2 miliardi di euro, ha debiti sotto gli 8 miliardi, investe ogni anno 6,4 miliardi nel Paese e ha quasi 121.000 dipendenti. È una delle principali aziende italiane per investimenti, con un indotto paragonabile a quello della Fiat. Un gioiello. Perfetto quindi per essere sacrificato sull'altare della patria. L'espressione è un po' forte, ma in fondo descrive quella che fu la scelta dell'allora governo: valorizzare alcune delle controllate di Stato per riuscire ad avere i conti in regola per poter essere ammessi nell'Euro. L'operazione su Telecom prevede una serie di tappe. A gennaio Prodi nomina Guido Rossi presidente, in agosto il ministro delle Poste e delle telecomunicazioni Antonio Maccanico vara una nuova authority indipendente, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e infine il 20 ottobre si apre l'offerta pubblica di vendita che riguarda 1.450.000 azioni Telecom offerte ai risparmiatori privati al prezzo di 10.908 lire l'una.

Chi fa l'affare, i privati o lo Stato? Il dibattito è aperto ancora oggi. Di sicuro un primo problema da affrontare riguarda la guida della società. Rossi si dimette il 28 novembre e nel gennaio 1998 il cda nomina nuovo presidente Gian Mario Rossignolo. Un mese dopo, Tomaso Tommasi di Vignano si dimette da amministratore delegato, mentre Vito Gamberale e Francesco De Leo vengono nominati direttori generali. Tra il giugno e il luglio 1998 però Gamberale lascia la società in seguito a divergenze con il presidente Rossignolo, ma anche quest'ultimo si dimette nell'ottobre 1998. Un mese dopo arriva alla guida Franco Bernabé, che assume anche le deleghe da amministratore delegato (figura che era mancata per mesi), ma anche l'ex Eni è destinato a durare poco.

La privatizzazione «è stata una follia», ha dichiarato poche settimane fa il ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso. L'idea del governo di valorizzare una società come Telecom Italia in quel contesto poteva anche aveva un senso. Quello che oggi lascia perplessi è che l'esecutivo abbia deciso di cedere quasi l'intera partecipazione in Telecom, senza garantirsi una quota di salvaguardia e/o tutela. Lasciando quindi un gioiello di Stato senza protezione. E così, nel febbraio del 1999 un nuovo evento è destinato a peggiorare ulteriormente la situazione: arriva l'opa dei «capitani coraggiosi».

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